Miniere sul fondo degli oceani: l’alto prezzo della transizione ecologica

Miniere sul fondo degli oceani: l’alto prezzo della transizione ecologica

Le grandi lobby dell’industria mineraria mondiale premono per avere il via libera allo sfruttamento dei fondali sottomarini. Per qualcuno è il futuro dell’economia “green”, per la scienza è un pericoloso salto nel buio, che rischia di distruggere alcuni degli ultimi ecosistemi incontaminati del nostro pianeta.

Molte associazioni e istituzioni che hanno cura dell’ambiente, tra cui le Nazioni unite attraverso l’IUCN, hanno chiesto una moratoria sulle operazioni minerarie sui fondali oceanici, ottenendo 81 favorevoli, 18 contrari e 28 astenuti.

La corsa all’oro sottomarino in Micronesia

Nella piccola repubblica indipendente dell’isola di Nauru, il governo locale ha recentemente chiesto ufficialmente all’International Seabed Authority (organismo delle Nazioni Unite che controlla tutte le attività connesse ai minerali presenti nei fondali marini internazionali) di velocizzare l’attuazione dei regolamenti per le attività minerarie sui fondali oceanici da parte di soggetti privati.

L’ISA ha due anni per approvare le norme in materia, in mancanza delle quali, il governo locale di Nauru e l’azienda partner canadese The Metals Company, avranno un via libera provvisorio per le loro attività estrattive.

In poche parole, senza un quadro normativo ufficiale a livello internazionale, entro due anni, anche altri Stati potrebbero avviare lo sfruttamento dei fondali oceanici su larga scala, seguendo l’esempio del governo di Nauru.

Con quali rischi?

Per The Metals Company ad esempio, la cui mission è caratterizzata da una potente narrazione ecologista, l’estrazione dei minerali custoditi nei noduli polimetallici (formazioni minerali millenarie presenti nei fondali oceanici, ricche di cobalto, nichel, rame e altri metalli rari) permette di ottenere materie prime per le batterie delle auto elettriche ma anche per i telefonini. Ufficialmente, l’obiettivo è diminuire l’inquinamento da Co2 e i cambiamenti climatici, sviluppando i trasporti meno inquinanti e relegando nelle profondità dei mari le operazioni minerarie estremamente inquinanti. Il problema è che i rischi, secondo geologi ed ecologisti, sono superiori ai potenziali benefici.

Degli ecosistemi marini nelle grandi profondità oceaniche si sa ancora troppo poco: la scienza ha iniziato a studiare queste forme di vita solo recentemente. Di certo si sa che non sono deserte, che hanno un loro equilibrio naturale complesso di cui anche i noduli polimetallici (che impiegano milioni di anni per formarsi) fanno parte. L’avvio di attività minerarie sui fondali oceanici potrebbe cancellare per sempre l’habitat di organismi marini indispensabili per gli equilibri sottomarini.  

E’ inoltre molto probabile che le attività estrattive rilascerebbero sostanze chimiche e sedimenti che andrebbero a inquinare non solamente i fondali ma anche le acque più superficiali, mettendo a rischio un’enorme quantità di forme di vita. Le acque al di sotto dei 200 metri sostengono molte specie pescate per il consumo umano, è logico quindi pensare che queste attività, oltre a distruggere la biodiversità più profonda, possano provocare l’immissione di sostanze nocive anche nella catena alimentare umana.

Devastare i mari per mantenere la Terra pulita

E’ la contraddizione a cui la politica e la scienza dovranno porre rimedio nei prossimi anni, per far si che la tanto auspicata “transizione ecologica” non si trasformi in una catastrofe per i nostri oceani, già messi a dura prova dalle innumerevoli attività illegali, dall’inquinamento globale da plastica e da anidride carbonica. Per questo l’IUCN ha chiesto agli stati membri di supportare lo stop alle attività estrattive di ogni tipo in attesa di “una valutazione d’impatto rigorosa e trasparente”. Intanto la palla adesso passa all’Isa, che potrebbe votare un regolamento definitivo nei prossimi due anni, disinnescando la clausola provvisoria della richiesta di Narau e The Metals Company.

Ma il business fa gola a diverse multinazionali. Dall’americana Lockheed Martin, alla cinese China Minmetals, fino al gruppo belga Deme.

Nella parte di Oceano Pacifico fra Hawaii e Messico, a circa tre chilometri di profondità ci sono immense riserve di cobalto e nichel, molto più ricche di quelle di Congo e Indonesia. Con quei metalli si costruiscono le batterie agli ioni di litio. Le riserve sotto i mari sono talmente ricche da poter alimentare milioni di auto elettriche.  

E la scienza continua ad essere scettica. Come ha sottolineato recentemente Lisa Levin della Scripps Institution of Oceanography di San Diego: «L’industria mineraria sostiene che se vogliamo energia rinnovabile e più batterie per auto elettriche, dobbiamo scavare nelle profondità marine». Per la Levin, resta il forte timore per le conseguenze dei detriti sollevati dalle estrazione nei fondali che andrebbero a modificare la composizione chimica delle acque, mettendo a rischio la salute delle creature marine (e quindi anche quella dell’uomo).

Ci credono anche alcune grandi aziende come BMW, Google di Alphabet e Samsung che si sono impegnate a non acquistare metalli estratti dagli oceani, almeno fino a quando le ricerche non daranno risposte certe su questo tipo di estrazioni.

Le responsabilità dell’ISA

L’Isa è l’autorità internazionale dei fondali marini, l’organismo intergovernativo con sede a Kingston, Giamaica. L’istituto è nato nel 1994 ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, per garantire che i minerali situati nelle acque internazionali siano sfruttati solo a beneficio dell’umanità. Per coordinare e controllare tutte le attività connesse all’estrazione dei minerali presenti in fondo al mare l’Isa si appresta ad approvare un protocollo per regolamentare gli scavi sottomarini di materie prime necessarie ad alimentare le batterie di telefonini e veicoli elettrici.

Secondo il segretario generale Michael Lodge, Intervistato dalla Bbc, “Anche con le attuali normative provvisorie una richiesta di sfruttamento commerciale avrebbe di fronte un lungo percorso per essere approvata, costellato di verifiche e bilanciamenti”. Almeno altri due o tre anni, non prima quindi del 2026.

Ma, secondo gli ambientalisti, obiettivo principale dell’ente, accusato di essere poco trasparente, è diventato rendere possibile le estrazioni piuttosto che regolarle. La corsa a cobalto e nichel sottomarini, insomma, è già iniziata.


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *